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Portiere di riserva, la storia di Alberto Maria Fontana

“Portiere di riserva” racconta la storia di Alberto Maria detto “Jimmy” Fontana, ma non è il classico testo celebrativo volto a descrivere un bello del calcio, ricco e famoso con quel tanto di dannato che arricchisce la figura. Marco Mathieu non segue le regole del mix perfetto per vendere e trasformare il libro in un best seller, ma racconta il sogno di un ragazzino normale e la sua ambizione di diventare un calciatore, o meglio un portiere con il Torino nel cuore.

“Da bambino mi piaceva buttarmi per terra. Forse era il segno di quella che amo chiamare la vocazione del portiere. Non calciatore, portiere. Perché giocare in porta è tutta un’altra storia”

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Jean-Marie Pfaff

Un esempio di calcio di strada, di oratorio è Jean-Marie Pfaff. Uno che ha rischiato di smettere di giocare per la frattura di tutte e due le braccia, che lavorava a 14 franchi l’ora e poi si allenava, vivendo con una famiglia di venditori ambulanti. Nel marzo del 2004 è stato inserito dal grande attaccante brasiliano Pelè all’interno delFIFA 100, la speciale lista che include i più forti calciatori di tutti i tempi. Vi lascio ad un interessante articolo scritto da Alec Cordolcini, il quale fa una premessa sulla biografia del portiere belga uscita nel 2007 e non disponibile in Italia.

“La speranza è che venga tradotta almeno in inglese “Overleven” (“Sopravvivere”), la biografia di Jean-Marie Pfaff pubblicata alla fine dello scorso anno e disponibile per ora solamente in lingua fiamminga. Sarebbe un buon viatico per non dimenticare uno dei più grandi portieri della storia del calcio, in patria paradossalmente più famoso oggi grazie al suo reality-soap De Pfaffs di quando, negli anni Ottanta, portava il Belgio alla finale di un campionato Europeo e al quarto posto di un Mondiale (i migliori risultati raccolti dai Diavoli Rossi nella propria storia), vinceva titoli in serie con il Bayern Monaco e veniva eletto, nel 1987, miglior numero uno al mondo. Molti ne ricordano gli atteggiamenti eccentrici, la fuga dal ritiro della nazionale vestito da infermiere, la mela lanciata dagli spalti e da lui raccolta e mangiata appoggiandosi al palo della porta, la divisa rosso fuoco in onore della sua attrice preferita, Kelly Le Brock alias “La Signora in Rosso” (film dell’84 con Gene Wilder), lo spirito guascone durante le interviste; questo è il Personaggio Pfaff, l’immagine pubblica da dare in pasto alla stampa più superficiale, la maschera sotto la quale ama nascondersi l’Uomo Pfaff, professionista esemplare che ha sempre saputo reagire con un sorriso anche quando la vita lo ha colpito duro. Un po’ come i pagliacci cantati da Capossela, “ridere per compiacere, la sala piena da mantenere, che bello udire l’applauso ilare, gonfiar la sala, scacciare il male”.

“From zero to hero”, dice in apertura Jean-Marie per spiegare la strada che da una roulotte parcheggiata nell’Astridplein, la piazza al centro di Anversa, lo ha portato fino a una mega-villa a Brasschaat dopo essere stato inserito nell’elenco dei cento più grandi personaggi belgi di sempre. Lui, figlio di una coppia di venditori ambulanti di stoffe e tappeti che scelsero il suo nome unendo quelli dei gestori (Jean De Lathouwer e la moglie Marie Veireman) di un’osteria della quale il padre era cliente abituale; lui, cresciuto con cinque fratelli e sei sorelle in una famiglia precocemente segnata dalla scomparsa del padre (Jean-Marie aveva 12 anni); lui, soprannominato “fatty” dagli amici per via del fisico non propriamente snello, e per questo motivo obbligato a mettersi in porta ogni volta che si giocava sulle strade di Lebbeke, la città della Fiandre in cui è nato. Anni dopo i pali da difendere sarebbero stati quelli del Beveren, prima nelle giovanili alternando al calcio un lavoro in un’azienda tessile a 14 franchi all’ora, quindi professionista in prima squadra per quasi un decennio prima di approdare ai fasti della nazionale e di Monaco di Baviera. Non senza l’invida di molti colleghi. “Qualcuno telefonò ai dirigenti del Bayern dicendo di stare attenti riguardo al sottoscritto; cresciuto in strada, pochi peli sulla lingua, carattere difficile. Uli Hoeness replicò che a loro serviva un bravo portiere, non un esperto di bon-ton, e a chi mi pronosticò una permanenza in terra tedesca non superiore a tre mesi risposi con sei stagioni da titolare”. In Germania Pfaff sfondò grazie al suo marchio di fabbrica, quello di pararigori, un’arte della quale sin dai tempi di Beveren è stato un interprete eccellente (tra le sue vittime anche Marco van Basten e Johan Cruyff ).
Alla nona giornata della sua prima Bundesliga ipnotizzò dal dischetto Manfred Kaltz dell’Amburgo; era il novantesimo minuto, i bavaresi con Breitner e Rummenigge avevano rimontato il doppio vantaggio dei campioni di Germania, Pfaff completò l’opera. La dirigenza, che fino a quel momento gli aveva impedito di rilasciare interviste per proteggerlo dopo un esordio da brividi bagnato da un goffo autogol che era costato al Bayern la sconfitta contro il Werder Brema (ma il diretto interessato ha sempre amato ricordare quello come un “episodio positivo, un’azione talmente buffa che fece il giro delle televisioni di tutto il mondo regalandomi il primo scorcio di fama”), rimosse il proprio veto. Davanti ai microfoni Pfaff snocciolò un improbabile ibrido tra fiammingo e tedesco che è rimasto negli annali della televisione sportiva germanica, un po’ come l’ormai mitica conferenza stampa del Trapattoni anti-Strunz. Nacque così il “Pfaff-Duits”, ovvero il tedesco riveduto e corretto da Jean-Marie Pfaff; nacque però soprattutto un personaggio capace di coniugare talento e simpatia come raramente si era visto, e si vede tuttora, nel mondo del calcio.

Capitolo Diavoli Rossi: dopo aver blindato la porta del Belgio agli Europei del 1980 consentendogli un insperato approdo in finale, poi persa 2-1 contro la Germania Ovest, il suo zenith Pfaff l’ha vissuto durante il Mondiale dell’86 in Messico, dove ancora una volta le sue prestazioni super (eroiche quelle negli ottavi di finale, 4-3 all’URSS, e nei quarti, Spagna sconfitta ai calci di rigore) sono valse al Belgio un altro grande piazzamento, il quarto posto, punto di arrivo di quella che attualmente rimane la miglior generazione calcistica espressa dai Diavoli Rossi nella loro storia. In panchina il santone Guy Thijs, in campo Jan Ceulemans, Georges Grün, Frank Vercauteren, Vincenzo Scifo, Eric Gerets, Stephane Demol e ovviamente Jean-Marie Pfaff, miglior portiere del Mondiale nell’86, del mondo l’anno successivo. “Fortunatamente la mia famiglia”, dichiarò poco dopo la premiazione, “non ha mai prestato molta attenzione al parere dei dottori. Quando ero piccolo una sbarra di acciaio mi spezzò entrambe le braccia, i medici dissero che avrei dovuto amputarle. Se gli avessero dato retta difficilmente avrei potuto essere qui oggi”. Ecco di nuovo la maschera da clown, per sdrammatizzare, per far divertire. La stampa messicana lo soprannominò El Simpatico. Ma dietro l’immagine buffonesca, come sottolinea Johan Cruijff nella prefazione del libro, “c’è sempre stato un campione vero, un atleta fisicamente, tecnicamente e tatticamente ai massimi livelli, un perfezionista dotato di spirito di sacrificio e culto del lavoro”.

La biografia si chiude nel 1991, l’anno del definitivo ritiro dalle scene dopo una strana esperienza in tono minore con il Trabzonspor (la sua ultima partita ufficiale sarà la finale di Coppa di Turchia, giocata con un ginocchio malridotto e persa 2-0 contro il Besiktas). Per il Pfaff ciclista, attore, uomo d’affari (sono in commercio a suo nome vini, champagne e una linea di prodotti per il bagno), organizzatore di eventi a scopo benefico, showman, allenatore (tre mesi sulla panchina dell’Ostenda nella stagione 98-99), testimonial pubblicitario e quant’altro bisognerà attendere un altro libro, già messo in cantiere dal diretto interessato. Magari scritto dai Caraibi, dove si è da poco recato per girare la nuova stagione del già citato reality campione di ascolti in Belgio De Pfaffs, ovvero la vita della numerosa famiglia Pfaff (moglie, tre figlie, i rispettivi mariti, sei nipoti) filmata non-stop 24 ore su 24. Perché secondo il diretto interessato “il calcio finisce, ma la vita continua”. Sempre con un sorriso.”